I palestinesi in Libano

Tra la fine del 1947 e il 1949, circa 750.000 palestinesi fuggirono o furono espulsi dalle proprie abitazioni da parte delle forze militari ebraiche e costretti a lasciare la Palestina(1). Il risultato di questo, che alcuni storici considerano un processo di pulizia etnica(2), fu che la terra in possesso ebraico passò da meno del 6%(3) al 78%(4) dell’intero territorio palestinese e andò a formare il neonato stato di Israele: questo evento è conosciuto nel mondo arabo come al-Nakba, “la catastrofe”.

Questi tre quarti di milione di profughi palestinesi si rifugiarono principalmente nei paesi confinanti: in Giordania, Siria, Libano e in altri stati arabi(5), andando incontro a destini forse differenti, ma uniti nell’impossibilità del ritorno alla propria patria. Di questa prima ondata migratoria, circa 100.000 palestinesi si rifugiarono in Libano(6). Questo esodo forzato conobbe una seconda ondata nel 1967, a seguito della “guerra dei sei giorni” (tramite la quale Israele prese il controllo, tra l’altro, della striscia di Gaza e della West Bank, di fatto appropriandosi di tutto il territorio destinato alla Palestina previsto nella risoluzione delle Nazioni Unite del 1947(7)).

Campo profughi di Naher al-Bared, vicino Tripoli (Libano), 1952. Foto di Myrtle Winter-Chaumeny. © United Nations Photo

“È una tragedia per entrambi i nostri popoli. Come posso spiegarlo nel mio inglese stentato? Penso che gli arabi abbiano gli stessi diritti degli ebrei e penso che sia una tragedia della storia che un popolo di rifugiati crei nuovi rifugiati. Non ho niente contro gli arabi… Sono come noi. Non credo che siamo stati noi ebrei a provocare questa tragedia – ma è successo”.
Shlomo Green, rifugiato ebreo scappato nazisti, nell’apprendere che la sua casa in Israele era stata tolta a una famiglia palestinese nel 1948(8).

Ciascun paese ospite ha gestito in modo individuale la questione dei rifugiati palestinesi: se in Giordania si registra forse l’impegno maggiore nel tentativo di integrare i palestinesi nel tessuto nazionale, e in Siria essi godono di quasi tutti i diritti civili, in Libano sono tutt’ora in atto restrizioni sostanziali(9). La grande maggioranza dei palestinesi lì residenti non ha ancora ottenuto la cittadinanza libanese, nonostante oggi la grande maggioranza di loro sia nata in Libano e le loro famiglie abbiano vissuto lì per generazioni. Infatti, dopo più di 75 anni di vita da rifugiati, nei campi profughi libanesi sopravvive adesso la quarta generazione dei profughi del 1948, mentre coloro che all’epoca vivevano nella Palestina storica, appena uscita dal mandato britannico, sono oggi anziani ormai sul punto di scomparire nel silenzio: quasi la metà della popolazione palestinese rifugiata in Libano ha meno di 25 anni(10). Ad oggi l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees, UNRWA) ne conta in Libano quasi 490.000 registrati(11), l’80% dei quali vive al di sotto della soglia di povertà locale(12).

Ma dove vivono i palestinesi in Libano? All’inizio, tra il 1948 e l’inizio della decade successiva, si erano prevalentemente sistemati in abitazioni in affitto, o ospitati da parenti o conoscenti; una minoranza stanziava in tende o era ospitata in moschee, monasteri o luoghi simili(13). Poi, negli anni ’50, furono progressivamente concentrati in una serie di campi profughi e insediamenti informali(14), sotto l’egida delle Nazioni Unite e della neonata UNRWA. I campi profughi dove opera UNRWA sono oggi 12(15), ma vi sono altri insediamenti informali sul territorio, di cui l’agenzia non si occupa.

“Nessuno dei campi ha alcuna infrastruttura formale. Alcuni campi sono stati parzialmente distrutti durante la guerra civile [libanese] e l’invasione israeliana e non sono mai stati ricostruiti. C’è molta povertà e il tasso di disoccupazione è molto alto. La superficie assegnata ai campi è rimasta invariata dal 1948 [circa 1,5km quadrati ciascuno]. Così, nei campi più popolati, i rifugiati hanno potuto espandersi solo verso l’alto. L’edilizia non è controllata e gli edifici non sono conformi agli standard di sicurezza internazionali.”(16)

Campo profughi di Shatila Beirut. Foto di Andreas Jacob
Campo profughi di Shatila, Beirut. Foto di Elisa Fourt (MSF)

Questo stato dei fatti fa sì che in alcuni campi le strade divengano cunicoli non più larghi delle proprie spalle; coloro che abitano al piano terra di queste vie non possono mai ricevere la luce del sole. In alcuni campi non c’è acqua potabile: l’acqua corrente è pescata direttamente dal mare e è salata (come nei campi di Shatila e Mar Elias a Beirut). A questo deve aggiungersi un sistema fognario insufficiente, nonché difficoltà e discontinuità nella fornitura elettrica. Lo stato libanese non si occupa dei campi: si limita a un servizio di “sicurezza”. I campi hanno un perimetro ben definito con entrate spesso controllate dall’esercito libanese. In generale, gli abitanti del campo sono liberi di entrare e uscire a loro piacimento, ma possono esservi controlli più o meno rigidi (come nel campo di Ain el-Hilweh, ritenuto il più “difficile”, dove l’esercito piantona ogni uscita, e che è chiuso ai non residenti). Nei campi, UNRWA fornisce istruzione, servizi sociali e sanitari, supporto alimentare(17).

Ma le conseguenze di non poter ottenere la piena cittadinanza (salvo in condizioni speciali o rare circostanze storiche e politiche che hanno coinvolto un numero limitato di individui) sono di estrema serietà per questa popolazione: la legislazione libanese nega agli “stranieri” una lunga serie di diritti; si tenga conto che la comunità “non-libanese” più numerosa residente sul suolo dello stato è proprio quella palestinese (rappresenta quasi il 9% della popolazione totale(18)). Ai palestinesi è negato l’accesso al servizio sanitario libanese, è negato l’accesso alla pubblica istruzione, non hanno diritto di voto. L’accesso al mondo del lavoro per loro è pesantemente ristretto: per decenni non hanno potuto legalmente esercitare circa 70 diverse professioni; nel corso degli ultimi anni la situazione ha cominciato a modificarsi, ma probabilmente più nella forma che nella sostanza. Ad esempio, nel 2021 il Ministero del Lavoro ha aperto la possibilità a “palestinesi nati nei territori libanesi e registrati ufficialmente presso il Ministero dell’Interno” di esercitare professioni regolate da ordini professionali(19); ciononostante molti di questi ordini non consentono l’iscrizione a nessun “non-libanese” per statuto interno(20). Tacendo poi della difficoltà nell’affrontare la burocrazia per ottenere permessi e registrazioni: dal 2019, ad esempio, il Ministero del Lavoro ha decretato che i palestinesi devono comunque ricevere un permesso di lavoro per poter esercitare una qualsiasi professione(21). Tutta questa situazione legale complicata e poco chiara di fatto apre le porte al lavoro nero e allo sfruttamento che ne consegue, o al limita le possibilità lavorative a professioni non specializzate, come operai, mercanti, braccianti.

Nel 2006 un articolo affermava che “le 5 principali fonti di reddito dei rifugiati palestinesi in Libano sono: l’impiego presso l’UNRWA; le rimesse dei parenti che lavorano all’estero; l’impiego in associazioni o organizzazioni palestinesi; l’impiego nell’agricoltura e in aziende libanesi; l’impiego in negozi e imprese all’interno dei campi profughi.”(23) Ciò potrebbe essere ancora applicabile oggi, nonostante i piccoli passi avanti fatti a livello legislativo. Inoltre, sempre a livello di legislazione, ai palestinesi non è permesso possedere o ereditare proprietà(24); ogni contratto d’affitto o vendita deve essere pertanto siglato tramite un prestanome; al decesso del proprietario palestinese l’immobile diviene proprietà del governo. Queste restrizioni nel lavorare e nell’abitare, unite alla crisi economica del Libano stesso, impediscono alla popolazione palestinese di accumulare una qualsiasi forma di ricchezza, rendendo la sua situazione civica sempre più precaria e condannandola di fatto a mantenersi all’interno degli spazi dei campi profughi, con tutte le complicazioni che ne conseguono.

A tutto questo si aggiunge la limitata libertà di spostamento: essendo i palestinesi apolidi, non hanno un documento di identità ufficiale; solo coloro che sono registrati presso UNRWA ottengono un documento di residenza e un documento valido per gli spostamenti (della durata di 5 anni, rinnovabile). In ogni caso, per potersi spostare al di fuori dei confini dello stato libanese, c’è la necessità di ottenere un visto, la cui conferma non è mai scontata(25).

Campo profughi di Beddawi, vicino Tripoli (Libano), 2016. Foto di Music & Resilience
Soldati a un ingresso del campo di Ain el-Hilweh a Saida. Foto AFP

“[I libanesi] ci considerano stranieri, ma anche gli stranieri hanno più diritti di noi. Lo straniero ha diritto di possedere, di acquistare… il palestinese non ha alcun diritto in Libano. Questa discriminazione, dicono, è perché torneremo in Palestina. Giusto, ma io sono un essere umano, voglio vivere”.
Profugo palestinese del campo di Shatila(22)

“Tu chiedi le ragioni della disoccupazione, quando noi palestinesi siamo privati dei diritti fondamentali. Non ci è permesso lavorare, e quando lavoriamo non possiamo prendere giorni di ferie o ricevere indennità di servizio, e non possiamo avere alcuna proprietà. Siamo privati di tutti i nostri diritti”.
Idraulico palestinese, 52 anni, campo di Mieh Mieh(39)

Una possibile via d’uscita da questa situazione è quella, per le donne, di sposare un uomo libanese: in tal caso, la sposa palestinese può ottenere la cittadinanza libanese un anno dopo la registrazione del matrimonio, ma solo in caso di una decisione giuridica favorevole(27).

In definitiva i diritti più basici sono negati ai palestinesi residenti in Libano: nonostante l’accoglienza loro riservata nelle primissime fasi del loro esodo, a oggi la situazione risulta non solo insostenibile e creatrice di grande marginalizzazione, ma ha anche un profondo impatto sulla salute, il benessere e l’aspettativa di vita della popolazione palestinese. Uno studio condotto nel 2012 tra le famiglie note a UNRWA ha riscontrato che più del 30% delle persone coinvolte nella ricerca soffre di una malattia cronica e il 24% di una malattia acuta nei 6 mesi precedenti; che più di metà delle donne lamenta problematiche psicologiche; che più del 40% delle abitazioni ha infiltrazioni di acqua che incidono negativamente sulla prevalenza di malattie croniche(28). Le condizioni dei bambini sono molto difficili: la sovrappopolazione e l’esposizione alla violenza sono due fattori di rischio molto presenti(29). Uno studio ha rilevato che la frequenza scolastica è ridotta dalla “alta prevalenza di solitudine, preoccupazione e ideazione suicida”(30). Tutto questo quadro ha ricadute sulla salute mentale, che fra l’altro in un campo come quello di Shatila risulta trascurata nelle cure primarie(31), e sul benessere psicosociale, con una gran parte della popolazione che riferisce problematiche emotive, comportamentali, psicosomatiche (tensione, ansia, tristezza, spossatezza, iperattività, difficoltà di apprendimento…)(32). Questa situazione è stata ulteriormente aggravata dall’inizio della crisi siriana, con l’ulteriore esposizione a eventi problematici e potenzialmente traumatici(33).

Quali orizzonti esistenziali può intravedere un individuo che nasce in questo ambiente, dal ventre di una madre che ha conosciuto solo questo, per generazioni, come sua madre e sua madre prima di lei? Dove la memoria di una vita libera di esprimersi e svilupparsi, di sognare e divenire, sbiadisce ogni giorno di più? La Nakba del 1948 non è un episodio isolato, autoconclusivo: è stato l’inizio di un processo che ad oggi non conosce una conclusione. La questione israelo-palestinese non si è mai risolta perché, generalizzando, né Israele ha mai concesso un ritorno ai profughi palestinesi, né i palestinesi hanno mai abbandonato l’ideale del ritorno nella propria patria, nelle proprie case. Questo attaccamento viscerale al proprio passato violato, il senso dell’ingiustizia subita, ha creato un’identità precisa e inflessibile di un’intera popolazione, che l’ha mantenuta in vita per più di 75 anni attraverso un’esistenza travagliata, marginalizzata, abusata e dimenticata dai più. Ha attraversato la guerra civile libanese, l’invasione israeliana del Libano del 1982, subito tradimenti, eccidi (vedi il caso terribile di Sabra e Shatila(34)). Non è quindi una sorpresa che uno studio qualitativo del 2020 rivolto ai palestinesi del Libano ha riscontrato “la mancanza di sicurezza come un’esperienza psicologica pervasiva: per i rifugiati palestinesi i timori quotidiani per la sopravvivenza e la paura di vessazioni possono essere stressanti tanto quanto la paura di scontri armati o criminalità”, e che “i rifugiati palestinesi sono pessimisti sul futuro e molti vedono nel reinsediamento in un altro paese l’unica soluzione.”(35)

Salute mentale nel campo di Shatila

Un campione di 254 pazienti delle cliniche di cure primarie di Shatila è stato sottoposto a screening per malattie mentali tra il 2012 e il 2013. La prevalenza delle malattie mentali era del 51,6% in totale: 34,8% di malattie mentali gravi [SMI] da sole, 5,1% di disturbo post-traumatico da stress [PTSD] da solo, 11,4% di comorbidità SMI/PTSD(36).

“Chiedi della sicurezza, ma dov’è? Cos’è la sicurezza? Come pretendi che io sia sano e salvo mentre non posso sottopormi a cure mediche e nemmeno vedere un dottore?”(37)

“Certo che non mi sento al sicuro. Ho perso la sensazione della sicurezza. Ho paura di tutto, a causa di tutto quello che ci è successo. Come potrò sentirmi al sicuro, dopo che il mio Paese ha subito tutte queste distruzioni, catastrofi, lasciandoci nella paura? Non esiste alcuna sicurezza…”(38)

Strade danneggiate a causa degli scontri interni al campo di Ain El-Hilweh (Sidone, aprile 2017). Foto di Furkan Güldemir (Agenzia Anadolu)

“Una sera squilla il telefono e una voce esitante vi dice che un tal dei tali è morto “mezz’ora fa”. Scopri che non puoi partecipare al funerale, accompagnarlo alla tomba, perché non hai il passaporto, o il visto, o la residenza, o perché ti è vietato l’ingresso.” Mourid Barghouti(26)

Certo, lasciare il Libano per un altro paese può sembrare una via d’uscita, ma viste le restrizioni sugli spostamenti e le politiche migratorie globali, essa non è spesso praticabile se non nella clandestinità. Una possibilità, per i giovani, è essere molto bravi negli studi e ricevere una borsa di studio (fornita da una delle varie organizzazioni umanitarie che agiscono in questa direzione) che consenta loro di studiare all’estero: essi avranno almeno una possibilità di scelta. In seguito, alcuni tornano in Libano a supportare la propria famiglia da vicino, magari senza più abitare nel campo di provenienza, ma nelle vicinanze, oppure mantenendo comunque una “connessione”(40). Ma ci sono anche coloro che non hanno intenzione di andarsene: pensano che, dopo 75 anni di “permanenza temporanea” in questa situazione, le condizioni di vita per loro e per i propri figli non cambieranno se non continueranno a lottare per i propri diritti, con tutta l’incertezza sui risultati che questi 75 anni ci hanno dimostrato. E comunque la loro vita da esuli, gli affetti di famiglia e amicizie, risiede in questi non-luoghi.

Questo è il contesto dove opera Music & Resilience. Nel corso degli anni molte persone si sono avvicendate nel progetto, sia nel team italiano che tra i beneficiari e collaboratori palestinesi, e tra molti di loro sono nati legami di amicizia, rispetto e condivisione sia umana che professionale, che non si limita al contesto del progetto in sé. Questi sono forse piccoli spazi sicuri, dove incontrarsi e imparare insieme la fragile arte dell’esistenza.

Note

  1. Slater, J. (2020, p. 81). Mythologies Without End. The US, Israel, and the Arab-Israeli Conflict, 1917-2020. Oxford University Press. ^
  2. Pappe, I. (2006). The ethnic cleansing of Palestine. Oneworld; cfr. Slater, cit., p. 84. ^
  3. Pappe, cit., p. 18. ^
  4. Khalidi, R. (2020, p. 60). The Hundred Years War on Palestine A History of Settler Colonialism and Resistance, 1917–2017. Metropolitan Books. ^
  5. Morris, B. (2006, p. 52). Righteous Victims. A History of the Zionist-Arab Conflict, 1881-2001. Vintage Books. ^
  6. Amnesty International (2007, p. 12). Exiled and suffering: Palestinian refugees in Lebanon. https://www.amnesty.org/en/documents/mde18/010/2007/en/ (consultato il 7/1/2024). ^
  7. Slater, cit., pp. 137-138. ^
  8. Fisk, R. (1990, p. 37). Il martirio di una nazione. Il Libano in guerra. Il Saggiatore. ^
  9. Bowker, R. (2003, pp. 72-76). Palestinian Refugees Mythology, Identity, and the Search for Peace. Lynne Rienner. ^
  10. UNRWA (2018). Protection brief. Palestine refugees living in Lebanon. https://www.unrwa.org/sites/default/files/unrwa_lebanon_protection_context_brief_june_2018.pdf (consultato il 7/1/2024). ^
  11. UNRWA (n. d.). Where we work. Lebanon. Consultato il 7/1/2024 su https://www.unrwa.org/where-we-work/lebanon; la cifra reale è di difficile computo, poiché la registrazione è volontaria e non è semplice tener conto di nascite, morti e emigrazioni; un censimento governativo del 2017 ha contato circa 174.000 rifugiati palestinesi totali (https://www.pcbs.gov.ps/portals/_pcbs/PressRelease/Press_En_Leb-21-12-2017-results-en-2.pdf consultato il 7/1/2024). ^
  12. UNRWA (n. d.), cit. ^
  13. El Ali, M. (2010, p. 23). Overview of Palestinian Forced Displacement in and from Lebanon 1948-1990. Al Majdal (44). BADIL Resource Center for Palestinian Residency & Refugee Rights. https://www.badil.org/phocadownload/Badil_docs/publications/al-majdal-44.pdf (consultato il 7/1/2024). ^
  14. Ibid. ^
  15. UNRWA (n. d.), cit. ^
  16. Shafie, S. (2006, p. 5). Palestinian Refugees in Lebanon. ^
  17. Ibid.; UNRWA (n. d.), cit. ^
  18. Escludendo la popolazione rifugiata dalla Siria nel periodo della guerra civile siriana (circa 1,5 milioni di persone); di questi profughi una parte consistente erano palestinesi che si erano rifugiati in Siria. ^
  19. Mahfouz, A., Sewell, A. (2021, 8 December). Labor Minister decrees Palestinians can work in professions requiring syndicate membership. L’Orient Today. https://today.lorientlejour.com/article/1284128/labor-minister-decrees-palestinians-can-work-in-professions-requiring-syndicate-membership.html (consultato il 7/1/2024). ^
  20. Saghieh & Nammour (2015). Labor rights of Palestinian refugees in Lebanon. Access to liberal professions. International Labour Organisation. ^
  21. Makhlouf, R. (2022, 13 January). Palestinian Work Permits in Lebanon: an overview of the decree and its political backlash. Kayani. https://www.kayaniforpalestinianfemalesproject.com/news/n93hze7stlnnlrx74u4snvjcs3czr4 (consultato il 7/1/2024). ^
  22. Salih, R. (2020, p. 152). I rifugiati e la politica catartica: dai diritti umani al diritto di essere umani. Il Ponte, Gennaio-Febbraio 2020. ^
  23. Shafie, cit., p. 12. ^
  24. El-Natour, S. (2003). The Palestinians in Lebanon. New Restrictions on Property Ownership. In Holy Land Studies, vol. 2(1). Edinburgh University Press. ^
  25. Ho esperienza personale di amici cui è stato negato il visto per una visita di piacere in Italia, senza fornire alcuna spiegazione. ^
  26. Barghouti, M. (2004, p. 134). I saw Ramallah. Bloomsbury. ^
  27. Institute on Statelessness and Inclusion (2021, p. 7). Country submission: Lebanon. Universal Periodic Review session 37. https://files.institutesi.org/UPR37_Lebanon.pdf (consultato il 7/1/2024). ^
  28. Habib, R., Seyfert, K., Hojeij, S. (2012). Health and living conditions of Palestinian refugees residing in camps and gatherings in Lebanon: a cross-sectional survey. Lancet, vol. 380 (1). https://doi.org/10.1016/S0140-6736(13)60189-0. ^
  29. Jamaluddine, Z., Irani, A., Salti, N., Abdulrahim, S., Chaaban, J., El-Asmar, K., & Ghattas, H. (2021). Child deprivation among Palestinian refugees in Lebanon and Palestinian refugees from Syria living in Lebanon: a cross-sectional analysis of co-occurrence of deprivation indicators. Lancet, vol. 398, S32. doi: 10.1016/S0140-6736(21)01518-X. PMID: 34227965. ^
  30. Nathani, K., Lee, WC., Taha, S. et al. (2023). The Association Between Mental Well-Being and School Attendance Among Palestinian Adolescent Refugees in UNRWA Schools. Journal of Child & Adolescent Trauma vol. 16, 339–350. https://doi.org/10.1007/s40653-022-00460-7. ^
  31. Segal, S.P., Khoury, V.C., Salah, R., Ghannam, J. (2020). Unattended Mental Health Needs in Primary Care: Lebanon’s Shatila Palestinian Refugee Camp. Clinical Medicine Insights: Psychiatry, 11. https://doi.org/10.1177/1179557320962523 ^
  32. Deutsche Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit (GIZ) GmbH, UNRWA (2014). Mental Health and Psychosocial Wellbeing Among Palestinian Refugees in Lebanon. https://data2.unhcr.org/en/documents/download/45359 (consultato il 8/1/2024). ^
  33. Medical Aid for Palestinians (MAP, 2018). Health in exile. Barriers to the health and dignity of Palestinian refugees in Lebanon. https://www.map.org.uk/downloads/health-in-exile–barriers-to-the-health-and-dignity-of-palestinian-refugees-in-lebanon.pdf (consultato il 7/1/2024). ^
  34. Vedi ad es. Fisk, cit., §11, pp. 396 e sgg. ^
  35. United Nations Development Fund (UNDP, 2020, p. 6). Nothing and everything to lose. Results from a qualitative Whatsapp survey of Palestinian camps and gatherings in Lebanon. https://www.undp.org/sites/g/files/zskgke326/files/migration/lb/UNDP-WhatsApp-Survey-Report_Final.pdf (consultato il 8/1/2024). ^
  36. Segal, S.P., Khoury, V.C., Salah, R., Ghannam, J. (2018). Contributors to Screening Positive for Mental Illness in Lebanon’s Shatila Palestinian Refugee Camp. The Journal of Nervous and Mental Disease 206(1), 46-51. doi: 10.1097/NMD.0000000000000751. PMID: 28976407. ^
  37. UNDP, cit., p. 16. ^
  38. Ibid., p. 48. ^
  39. Ibid., p. 37. ^
  40. Ciò non è esclusivo della comunità palestinese rifugiata in Libano; vedi Achilli, L. (2020, p. 183). Alla ricerca della dignità. Economia politica e nazionalismo nel campo profughi di Al-Wihdat, Amman. Il Ponte, Gennaio-Febbraio 2020. ^